29 gennaio 2007

Congresso cantonale PLRT

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - al Congresso cantonale del PLRT di sabato 26 gennaio 2007 a Lugano)

[fa stato il testo parlato]

Intervento sul Preambolo del programma di legislatura del PLRT 2007-2011

Presidente, amiche e amici liberali radicali,

intervengo sul preambolo per dire che mi piace perché esprime l’immagine di un liberalismo moderno e aperto; perché promuove non solo diritti e aspettative verso lo Stato, ma conferisce spazio a quella innata vocazione dell'individuo che è la vocazione al miglioramento della sua condizione attraverso l'iniziativa personale e la responsabilità individuale.

Il preambolo mi soddisfa perché cerca di dare risposte ad un problema nuovo che ha assunto in questi ultimi anni una dimensione sociale, politica e culturale imprevista: quello della presenza di uomini e donne di culture, religioni e costumi diversi. Sono risposte che passano dal richiamo alla tradizione illuministica con il riconoscimento e la garanzia di libertà, uguaglianza e solidarietà, nel rispetto dei nostri ordinamenti giuridici, dei nostri costumi e delle nostre tradizioni.

Mi soddisfa perché, di fronte ai fanatismi politici e religiosi che avanzano, il preambolo richiama l’importanza dello Stato laico e riafferma il valore del modello di scuola laica, gratuita e obbligatoria uscito dall’Illuminismo.

Ma il preambolo mi soddisfa anche perché ha il coraggio di mettere l’accento sulla necessità di un riscatto etico della politica per poter raggiungere uno dei suoi obiettivi prioritari: l'obiettivo di mantenere e rinsaldare la coesione sociale, contrastare i processi disgregativi, tenere assieme le persone, facendole sentire parte di una comunità nei confronti della quale tutti noi possiamo anche vantare dei diritti, ma soprattutto abbiamo dei doveri.

E le recenti tribolate vicende che hanno coinvolto troppi liberali non possono passare sotto silenzio in un congresso di un partito che si è sempre contraddistinto per essere il partito del rigore, della correttezza, della coerenza e della trasparenza; un partito rappresentato da donne e uomini ispirati da valori autentici di libertà che hanno fatto della rettitudine dei comportamenti la loro bandiera.

So che corro il rischio di farmi dare del facile moralista da chi dirige quello che una volta era un giornale indipendente, ma preferisco, come ha scritto recentemente lo storico Andrea Ghiringhelli, assumere il rischio di entrare nella categoria crociana degli imbecilli, per rivendicare l’imbecillità di chi ancora crede nell’onestà politica.

Anche perché la credibilità della politica passa attraverso la credibilità dei politici e delle istituzioni dello Stato, ragione per cui il problema della fiducia fra cittadini e la classe politica - cioè fra la società civile e i suoi rappresentanti - da un partito come il nostro va affrontato di petto, a costo di portare alla luce qualche verità scomoda ed imbarazzante.

Ma per chi si ispira ai nostri ideali la verità va detta. Sempre e comunque.

La classe politica risulta credibile e affidabile se è vista come un’élite della società e per la società, che tradotto in parole semplici significa farsi interprete credibile dell’interesse comune, non da ultimo attraverso la promozione di valori condivisi dalla società medesima.

Ancora una volta rischia di avere ragione il buon Tocqueville quando ammoniva che una società individualista e frammentata è maggiormente esposta a soccombere ai totalitarismi d'ogni genere, rispetto ad una società unita e pluralista basata sul senso di appartenenza ad una comunità.

Per dire che la politica e i politici devono essere portatori di un’etica pubblica della responsabilità che contempla l’obbligo di rispondere sempre delle conseguenze delle proprie azioni; e ciò in misura maggiore di ogni semplice cittadino.

Lo Stato che noi liberali radicali abbiamo costruito e plasmato è “lo Stato di diritto” che si riconduce all’antico concetto di Aristotele del governo delle leggi e non di semplice governo degli uomini.

Chi governa e amministra la cosa pubblica non può agire secondo i propri capricci, ma il suo potere è disciplinato da leggi alle quali deve sottomettersi come ogni altro cittadino. E se poi queste leggi si rivelassero inadeguate, la nostra democrazia ci dà semmai gli strumenti per cambiarle.

E il rispetto di questi principi citati prima non ammette cedimenti: deve valere per tutti, senza margini di tolleranza o distinguo di partito.

L’etica pubblica, signore e signori, o c’è o non c’é. Il diritto è l’attuazione della volontà dello Stato in quanto volontà dei cittadini. Per chi fa politica è pericoloso vivere e lavorare in un contesto dove la linea di demarcazione fra lecito ed illecito si fa sempre più sottile e tende pericolosamente a sfumare, correndo il rischio di avere la sensazione di essere nel giusto anche quando nel giusto non si è.

La politica non la si fa con la morale, ma, care amiche e cari amici, nemmeno senza.

Caro Presidente, capisco il tuo imbarazzo quando ti trovi davanti ai microfoni a dire che "il partito non c'entra". Purtroppo c'entra, eccome.

Un partito come il nostro, da sempre capace di affermare i valori di cui è storicamente portatore, deve reagire e soprattutto deve far capire a chi sbaglia - e sbagliando mette in difficoltà il partito - che deve farsi da parte, perché la mancanza di credibilità dei politici compromette la capacità di fare, di tradurre le idee in realizzazioni e di essere parte attiva nella costruzione del consenso come premessa della coesione sociale.

Ci possiamo ancora una volta appoggiare sulla concezione della politica e del senso dello Stato del Franscini, per il quale politica è missione, è dedizione assoluta al bene pubblico, è perseguimento dell’interesse collettivo che presuppone l’annullamento degli interessi personali nel servizio della cosa pubblica.

Per concludere permettetemi, amiche ed amici, di insistere su questo punto e di invitarvi a riflettere sul monito del grande Franscini che si scaglia con sdegno contro quella classe politica che è - cito -
"dominata dalle invidie e dagli odi e così povera di carità e di virtù; e che offre tanti brutti esempi di apostasìe, di guerra al merito e al vero, per cagion d’egoismo e di ambizione".

L’invettiva è del 1834 ma conserva, purtroppo, una bruciante attualità.

E’ questa strada, la strada del rigore morale e del ripristino del primato dell’etica pubblica, che noi dobbiamo percorrere con coraggio e determinazione se vogliamo rilegittimare la politica agli occhi dei nostri cittadini.

19 gennaio 2007

Gender Day 2007: il ruolo della donna nelle università

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - in occasione della giornata "Gender Day 2007: il ruolo della donna nelle università", organizzata venerdì 19 gennaio 2007 a Lugano)

[fa stato il testo parlato]


Gentili signore e signori,

Vedo che la tradizione grammaticale sessista, secondo cui il termine maschile vale anche per il femminile, resiste ancora qua e là. Sulla prima pagina della locandina si legge “Relatori”: ne è rimasto uno, il professor Baranzini, attorniato da cinque relatrici. Ma forse è solo una questione di disposizione grafica. Poche righe sotto, infatti, si rimettono le cose a posto, cosí come vuole la norma sulle pari opportunità nello scrivere e nel parlare. Dunque:

Care relatrici, caro relatore,
Gentili signore e signori,

“Va male per i maschi; ma va peggio per le femmine. Nelle scuole comunali ricevono d’ordinario l’istruzione coi maschi, ma in grado inferiore. La fanciulla di benestante famiglia imparava a leggere, ma anche a scrivere: se poi aggiungeva il fare le somme, la divisione e la moltiplica, era quasi troppo.”

Sono passati circa 170 anni, da quando Stefano Franscini scrisse queste frasi. Si potrebbe scrivere oggi: Vale, oggi e per fortuna, per i maschi e per le femmine l’accesso all’istruzione. Resta però la difficoltà di chi è donna di far valere le proprie capacità in carriera senza essere talvolta vittima delle dinamiche di mercato, di certe visioni che resistono all’interno della società e della politica. Leggo in una pubblicazione per le donne: ”Per invertire questa tendenza è necessario che il mondo cominci a camminare con due gambe, una maschile e una femminile, e con le loro diversità, naturalmente, ma con pari diritti.”

A parte la difficoltà fisica di camminare con due gambe cosí, ha dunque ragione Rita Levi Montalcini quando ribadisce, ancora 150 anni dopo il Franscini: “Il giorno che si darà alle donne la piena parità, il mondo vedrà una nuova speranza.” Una di voi scrive: “Donne forti e determinate – tra di esse madri e mogli – che hanno deciso consapevolmente di ritagliarsi uno spazio in un mondo universitario ancora molto solidamente declinato al maschile.” E aggiunge un’altra di voi: “Le donne devono imparare a usare quegli strumenti maschili che funzionano.” Come uomo, in un tempo in cui per fortuna l’ascia di guerra è sotterrata – almeno dalle nostre parti – quelle parole non mi turbano. Accetto con tutta la buona volontà l’invito a capire le esigenze delle donne e, come politico, a collaborare perché si creino strutture in grado di permettere alle donne, in prima fila alle madri, di non rinunciare a tutti i loro sogni.

Le statistiche lo dicono: la presenza femminile nel mondo accademico rappresenta solo una bassa percentuale del totale del corpo docenti e di chi lavora nella ricerca. Dite che le donne professore in Svizzera sono solo il 14%. Tre anni fa, secondo il documento She Figures, nell’Unione Europea dei 14 stati membri, la percentuale oscillava tra l’11,6% e il 13,2%, Nei Paesi Bassi e in Austria era solo del 6%. Secondo dati recenti, in Italia solo il 10% sono ordinari donne. Non ho elementi per dire se al giorno d’oggi riusciamo ancora a rimanere sopra la media europea, anche se, ormai l’abbiamo ripetuto più volte, la situazione non ci soddisfa.

Dalle interviste raccolte nella vostra pubblicazione Gender Day 2007 le donne sottolineano alcuni di questi aspetti tipici del mondo femminile, che dovrebbero tuttavia interessare e preoccupare anche gli uomini, che pure loro hanno un ruolo in seno alla famiglia. E’ ormai immagine radicata nella nostra società che noi uomini non siamo mai a casa e che tutto il peso dell’economia domestica cade sulla donna. La realtà della famiglia di oggi è tuttavia già diversa ed è molto opportuno che i servizi di pari opportunità considerino i problemi della famiglia nella loro globalità, non solo come problemi della donna.

Quelle difficoltà sono le esitazioni della donna a proseguire negli studi dopo la laurea perché si diventa mamma e nasce il problema dei figli, difficoltà legata anche all’importanza di poter disporre dell’aiuto dei nonni. E’ l’esigenza dell’attuale ambito accademico di dover fare esperienze professionali e di rimanere assenti per molto tempo dalla famiglia. E’ di avere – cito una vostra marginale – marito e professori come buoni compagni di viaggio e infine di contare sul sostegno e la disponibilità del compagno di vita perché la donna possa acquisire visibilità nel mondo del lavoro.

Come politico mi chiedo che cosa deve fare lo Stato per far sì che la società – cito da un testo del Laboratorio sul lavoro e l’impresa – non imponga più alla donna “ruoli familiari che interferiscono pesantemente con le modalità della produzione scientifica” e per far sí che – continuo la citazione - in tutti i settori produttivi persista l’evidenza secondo cui “il matrimonio e la carriera siano correlati negativamente.”

In altre parole vuol dire che le donne sposate e che hanno figli producono meno perché hanno meno tempo da dedicare al lavoro. E’ una donna che lo dice. E magari anche molti uomini la pensano così, dimenticando che proprio le competenze sociali acquisite nei ruoli familiari, le cosi dette "soft skill" sono considerate fondamentali per il successo del lavoro di gruppo e l’efficacia della ricerca.

Per concludere e rimanere nell’ambito che mi è più vicino come direttore del DECS. L’esigenza di organizzare strutture di accoglienza istituzionalizzate e aperte dalla mattina alla sera è fuori discussione. Molto si è fatto qui da noi. Ma c’è ancora molto da fare.

Bisognerà aprire nuove mense scolastiche e prevedere strutture per il doposcuola: è un problema che tocca il cantone e i comuni. Non riguarda solo gli spazi da mettere a disposizione. Da includere nella riflessione ci sono il lato finanziario non disgiunto dal problema dell’autonomia comunale e l’assunzione di persone che coprano quegli spazi di tempo. Sono coinvolti docenti, personale ausiliario, le famiglie. E in questa sede dev’essere riconosciuto il notevole e indispensabile apporto offerto dai privati.

Ma il problema non ha solo aspetti materiali. Si tratta, all’interno della nostra società, di educare la gente a un cambiamento culturale assai significativo. Concerne il ruolo della famiglia e in particolare della donna madre, ma anche il ruolo del padre, considerato molto spesso assente dalla vita quotidiana. Ma il cambiamento esige anche una riflessione sul ruolo e i modi dell’educazione dei figli. Esige il superare il modello semplicistico del “entwer, oder”, come continua contrapposizione duale. Occorre dunque promuovere un cambiamento culturale come che conduca a superare le contrapposizioni apparentemnete vere, perché semplici e ancorate nella tradizioni. Non "o madre o ricercatrice", ma "come diventare una migliore ricercatrice, perché madre, o padre". Le competenze e le abilità di negoziazione acquisite nel gestire le complesse relazioni di una famiglia sono valori da apprezzare per il lavoro.
In modo paradossale e ironico un responsabile del personale mi diceva che nelle sale di valutazione per le assunzioni il fatto di aver "gestito" con successo tre figli - o figlie – adolescenti doveva contare come un master in mediazione di conflitti…

Sono convinto della fondatezza delle norme di principio, di cui scrivete nella vostra pubblicazione, perché siano garantite le pari opportunità tra donna e uomo. E’ lodevole lo sforzo che questa università compie per giungere a un traguardo che dovrà comunque essere il traguardo di tutti, non importa in che campo del mondo produttivo operi.

Ma il cambiamento culturale, di cui ho detto prima, potrà essere realizzato solo con la convinzione di tutti gli elementi che compongono la società. E i cambiamenti culturali richiedono tempo.

Da una parte c’è chi cerca lavoro perché è il compimento naturale di un periodo di formazione che ha riempito anni della propria vita. Ma cerca lavoro anche per non sentirsi discriminato e per essere utile agli altri e per contribuire con il lavoro e la ricerca a migliorare la qualità della vita.

Dall’altra parte c’è chi offre lavoro permettendo di conciliare le esigenze familiari con quelle della professione, perché essere soddisfatto della propria vita vuol dire essere soddisfatti di quello che si fa.

Concludo con queste parole di ottimismo, senza il quale nemmeno il politico può lavorare a favore della comunità e auguro alle persone coinvolte in questa giornata di compiere oggi un passo in avanti perché la felicità consiste anche nell’avere la possibilità di poter fare quello per cui ci si è preparati. E molti ne sono oggi impediti.

15 gennaio 2007

Conferenza stampa di presentazione dell’Istituto universitario federale per la formazione professionale

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - in occasione della conferenza stampa di martedì 15 gennaio 2007 a Lugano)


Signor Direttore nazionale,
Signor Direttore regionale,
Signori Docenti,
Caro Collega,
Signore e signori rappresentanti dei media della Svizzera italiana,

ringrazio la Direzione dell’Istituto per aver voluto associare, a questa presentazione, che di per sé ha carattere nazionale, del nuovo Istituto universitario federale per la formazione professionale, i due Cantoni, il Ticino e il Cantone dei Grigioni, qui rappresentato dal collega e amico Claudio Lardi.

Sono convinto che l’invito voglia essere anzitutto un coinvolgimento dei due Cantoni nei quali l’Istituto maggiormente svolgerà la propria azione, principalmente nel Ticino ma nel Ticino anche a favore delle persone in formazione grigionesi, del Moesano e della Calanca, che frequentano le nostre scuole professionali, così come nei Grigioni, in quell’avamposto della cultura professionale italiana che è la scuola professionale di Poschiavo.

Ma, in più, l’invito vuole essere anche l’affermazione di un aspetto del nuovo statuto dell’Istituto, l’aspetto della regionalità, dal momento che esso si articola nelle tre sedi regionali di Zollikofen, Losanna e Lugano.

E’ pur vero – e lo dico anche ai responsabili regionali dell’Istituto - che in questa fase di nuova costruzione possa prevalere la preoccupazione di dare unità nazionale sia alle strategie che informano il nuovo Istituto sia alla traduzione operativa di queste strategie. E’ uno scotto inevitabile che bisogna pagare in questa fase iniziale, anche perché l’autorevolezza dell’Istituto sul piano nazionale, al confronto con le altre realtà universitarie federali e cantonali della Svizzera, può venire solo da una sua salda compattezza di visioni e di azioni, ma anche di numeri.
Tuttavia, a conforto appunto dei responsabili regionali e a cortese monito nei confronti della direzione centrale, vorrei sottolineare il valore di questa articolazione regionale, fortemente voluta anche sul piano politico. Nel dibattito sulla nuova legge federale sulla formazione professionale è stato fermo il richiamo del nostro Cantone nel salvaguardare questa articolazione regionale dell’Istituto, richiamo che ha poi avuto puntuale riscontro nell’articolo di legge approvato dall’Assemblea federale. E ora si tratta di rispettare la volontà politica chiaramente espressa, assicurando alle sedi regionali quella facoltà di interagire pienamente e direttamente, senza barocchismi amministrativi, con la realtà economica, culturale, scolastica locale. Insomma, la sede di lingua italiana dell’Istituto deve essere un centro vivace e radiante di cultura professionale italiana per il Cantone Ticino e per il Cantone dei Grigioni e non solo un semplice esecutore di disposizioni centrali.

Per il suo statuto universitario, è evidente che l’Istituto è destinato a confrontarsi con la realtà universitaria ticinese, fatta di USI e di SUPSI, e magari anche con quella insubrica, perché Como e Varese sono a due passi, nonché, per il compito dell’Istituto di formatore di formatori, con l’Alta scuola pedagogica. Questa disponibilità alla reciproca collaborazione con le strutture universitarie ticinesi è già operante in vari ambiti ed è destinata a rafforzarsi con il progetto comune di integrazione logistica dell’Istituto nel nuovo campus universitario che si sta delineando a Lugano. Sappiamo che in materia d’integrazione ci possono essere anche alcuni interrogativi, ma credo di poter rassicurare l’Istituto che è mirata un’integrazione logistica, non istituzionale.

Non vorrei tralasciare di sottolineare, prima di concludere, un aspetto che viene per il mercato del lavoro del Cantone dalla presenza di una sede regionale dell’Istituto; il collega Lardi a questo proposito avrà meno da dire ma il suo Cantone è comunque già beneficiario del più basso tasso di disoccupazione in Svizzera . Si tratta degli oltre 20 posti di lavoro che esso genera, per di più posti di lavoro altamente qualificati, per accademici. E’ pur vero che il Ticino, in questo incessante processo di trasformazione dell’Amministrazione federale, ha perso centinaia di posti delle ex-regie federali. Ne ha però guadagnati, anche se non nella stessa misura ma magari di maggior qualità, con gli insediamenti universitari come questo. Il progetto di “Ticino della conoscenza” ha anche questi risvolti positivi.

Da ultimo vorrei solo augurarmi, per il Cantone Ticino ma penso valga anche per i Grigioni, che possa continuare anche con il nuovo Istituto universitario federale per la formazione professionale l’eccellente collaborazione sviluppatasi con l’ormai morto Istituto svizzero di pedagogia per la formazione professionale nella formazione dei docenti delle scuole professionali, di altri formatori e dei periti d’esame, nell’accompagnamento di progetti della formazione professionale, nella ricerca, nel monitoraggio di azioni della formazione professionale ticinesi.

L’augurio si avvererà certamente, poiché ve ne sono tutte le premesse.

"Formazione e ricerca motori della crescita"

(Contributo di Gabriele Gendotti - Consigliere di Stato e Direttore del DECS - pubblicato su "laRegione Ticino" di sabato 13 gennaio 2007)


Formazione e ricerca motori della crescita

La formazione e le attività di ricerca e di sviluppo tecnologico diventano sempre più strumenti di crescita per uno Stato moderno: a maggior ragione per uno Stato, come la Svizzera, povero di risorse naturali.

Il sapere in certi settori invecchia velocemente e la capacità di rimanere sempre all’avanguardia è determinante per assicurare la competitività di un Paese in un’economia sempre più globalizzata. Sono necessari più mezzi, più strutture adeguate ai tempi, più cervelli per rimanere al fronte, fra i primi della classe. Una società che dimentica queste priorità mette a repentaglio la prontezza e la versatilità intellettuale e materiale delle prossime generazioni.

Anche per il Ticino l’auspicato sviluppo economico non potrà passare solo attraverso l’aumento dei capitali e del lavoro, ma anche attraverso la capacità di innovazione tecnologica, frutto della ricerca fondamentale e delle attività di ricerca applicata e di sviluppo.

Perché, come indica il Consiglio federale nel suo documento programmatico di legislatura, se la formazione costituisce la base per assicurare autonomia all’individuo e favorisce la sua capacità di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, per un altro verso la ricerca stimola la vivacità culturale e scientifica di un paese ed è lo strumento per riflettere sul presente e anticipare le scelte del futuro.

Va letta in questa ottica la scelta strategica di inserire nel messaggio sulla destinazione di una parte dei proventi dell’oro della Banca Nazionale Svizzera un credito quadro di investimento di 15 milioni di franchi a favore di istituti di ricerca; alcuni di essi sono già presenti sul nostro territorio, ad esempio nel campo biomedico, e hanno saputo o sapranno in poco tempo raggiungere, grazie all'eccellenza del loro lavoro, un livello di prestigio scientifico riconosciuto sul piano internazionale.

Nel segno della continuità nella promozione di un Ticino in grado di attirare cervelli - e di consolidare un solido contesto scientifico residente capace di promuovere la produzione e la divulgazione del sapere - sono prospettabili ulteriori poli di competenza di alto livello nel campo dell’informatica e del supercalcolo sfruttando i notevoli potenziali di sinergia fra il Centro svizzero di calcolo di Manno con la facoltà di scienze informatiche dell’USI e il Dipartimento Tecnologie innovative della SUPSI, così come si aprono strade interessanti nei vari progetti in via di elaborazione anche a livello nazionale nel settore delle nanoscienze e delle nanotecnologie.

Il credito quadro deve fare da apripista per un cambiamento culturale e per far capire che nella società moderna postindustriale il concetto di investimento non può limitarsi ad importanti settori "tradizionali" - edilizia e costruzione ad esempio - ma deve sempre più anche esteso a beni immateriali come appunto le attività di ricerca e di sviluppo di tecnologie.

Tutti ne potranno trarre vantaggi a livello di competitività delle imprese e di occasioni di occupazione nei settori della salute, delle biotecnologie, ma anche nel campo dell'energia, dell'informazione o dell'ambiente in un contesto di sviluppo sostenibile (pensiamo ad esempio alle conseguenze anche su un piano locale dei cambiamenti climatici in atto).

L’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona ha dimostrato che certe sfide si possono vincere: più di 140 pubblicazioni con un alto “impact factor” dimostrano la capacità produttiva e l’importanza che un team di ricerca riesce a raggiungere in pochi anni. Sono stati creati dal nulla 60 posti di lavoro di alta qualità fra cui, oltre ai capigruppo, 15 ricercatori post-doc, vale a dire già in possesso del titolo di dottorato. Questi sono fatti e non semplici parole.

Dobbiamo continuare su questa strada di un Ticino che costruisce il suo futuro sulla formazione, la ricerca e l'innovazione: la conoscenza si traduce così in elemento-motore della crescita economica, sociale e culturale di un Paese che vogliamo votato al progresso.

12 gennaio 2007

Educazione sessuale nelle scuole

(Intervendo di Gabriele Gendotti - Consigliere di Stato e Direttore del DECS - in occasione della conferenza stampa per la presentazione del Rapporto "Educazione sessuale nelle scuole" di venerdì 12 gennaio 2007 a Bellinzona)


Gentili signore e signori,

Negli anni 70 il mondo ticinese - la scuola, la famiglia, l’ambiente politico, le associazioni magistrali, i mass-media – fu letteralmente scosso da un terremoto il cui epicentro fu un’aula scolastica in cui si decise di introdurre l’educazione sessuale. Le reazioni personali e pubbliche si manifestarono nel cantone in forma molto passionale e critica. Non è una novità: succede sempre così di fronte a eventi che scuotono la routine quotidiana.

Ma quello fu un vero terremoto anche perché il fatto incrinava uno dei punti, ritenuti fermi fino a quel momento dalla società, in primo luogo dalle famiglie: quello secondo cui la formazione affettiva fosse un ruolo della famiglia, mentre alla scuola era riservata l’istruzione. Vigeva dunque una suddivisione fra le diverse componenti della società a cui venivano attribuiti compiti differenziati di formazione dell’individuo: c’erano la famiglia, la scuola, le chiese, le associazioni locali e i mass-media che nel corso degli anni avrebbero assunto un ruolo ben più significativo nel processo di crescita dei giovani.

Oggi, quasi quarant’anni dopo, è difficile dire fino a che punto quella suddivisione sia stata sostituita da uno sforzo comune che miri a raggiungere obiettivi condivisi. Quest’ultimi riguardano la formazione globale della persona, la capacità dei giovani di affrontare le realtà della vita, il rispetto della tradizione ma anche la forza di aprirsi a nuovi scenari. Ma è anche la forza di superare il disagio in una società in cui sono cadute certezze e autorità e nella quale la diversità immerge la giovane e il giovane in una realtà che ha aspetti inattesi e talvolta inquietanti.

Le tesi del Rapporto, presentato oggi, possono trovare applicazione nella realtà scolastica, solo con il coinvolgimento di tutte le componenti educative della società, in primo luogo della scuola e della famiglia; anche se – lo si deve pure ammettere - non è facile dare sostanza a questo coinvolgimento in un momento in cui si tende a delegare alla scuola sempre più compiti, che vanno oltre quelli di formazione, di educazione e – specchio dei tempi – di integrazione individuale e sociale.

Gli autori del Rapporto partono dunque dal presupposto che ogni agente educativo - sia esso la scuola, la famiglia, un gruppo giovanile, il territorio – interviene sulla persona in modo globale perché ogni singolo intervento tocca tutte le dimensioni dell’individuo e non una sola singola parte. L’educazione diventa così un’opera di coerenza, frutto della condivisione di valori universalmente accettati e di obiettivi educativi fondamentali.

In questo senso, il campo dell’educazione sessuale è esemplare, perché coinvolge il piano fisico, emotivo, etico e sociale e non può ridursi a sola informazione nelle aule scolastiche.

La composizione del Gruppo di lavoro sull’educazione sessuale, istituito dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport e dal Dipartimento della sanità e della socialità, è lo specchio di questo approccio al tema. Lo compongono la dottoressa Caranzano-Maître, medico-pediatra, e i rappresentanti dei vari ordini di scuola, del campo dell’educazione sessuale, delle famiglie, della chiesa cattolica e della chiesa evangelica.

Il metodo con il quale si affrontano problematiche complesse che influiscono sul vivere nella società attuale e sul modo di concepire i rapporti tra individuo e individuo, tra individuo e società, non può più essere lasciato alla sola buona volontà o all’iniziativa del singolo, né essere frutto di improvvisazione.

Il Rapporto del Gruppo di lavoro rappresenta dunque una base su cui continuare a costruire, come si legge nel comunicato stampa, una cultura dell’educazione sessuale nella scuola. Vuol dire promuovere la formazione globale dell’individuo, così come è stato detto prima, che non può prescindere dall’educazione alla salute e quindi nemmeno dall’educazione sessuale.

Dalla consultazione ci attendiamo proposte e suggerimenti che consentano di affinare il compito educativo della scuola, coerente a valori e a obiettivi condivisibili dall’intera comunità. Questo anche perché la curiosità del bambino prima e dell’adolescente poi ottenga risposte chiare, suscettibili di rafforzare nel loro animo il rispetto di se stesso e degli altri.