14 novembre 2007

Inaugurazione mostra Franscini a Faido

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - per l'inaugurazione mostra Franscini a Faido del 5 novembre 2007)

Signor Sindaco,
gentili signore,
egregi signori,

intervengo, credo per la sesta volta in occasione di manifestazioni per la commemorazione del 150° anniversario della morte di Stefano Franscini. Lo faccio con ancora maggior entusiasmo e coinvolgimento personale qui a Faido, Comune che ospita nella piazza a lui dedicata la statua inaugurata nel 1896 in occasione del centesimo della sua nascita con quella scritta che tutti noi, che attorno a quel monumento abbiamo giocato giorno dopo giorno nelle pause scolastiche, abbiamo impresso nella memoria: “All’educatore, storico e statista insigne”.

Perché il Franscini non fu soltanto il padre della pubblica educazione, come tutti noi lo ricordiamo, non fu soltanto maestro, educatore e pedagogista, egli fu studioso di storia patria, di economia politica e anzitutto di statistica, della quale fu precursore con opere fondamentali, penso in particolare al suo capolavoro “La svizzera italiana” che lo fece conoscere ed apprezzare anche al di fuori dei confini cantonali e nazionali.

Fu anche pubblicista formidabile, capace con la sua fervida e acuminata penna di far crollare i governi e di porre le basi per le riforme di cui aveva bisogno un Paese che si doveva incamminare sulla via del Progresso.

Fu protagonista di una lunga e appassionata carriera politica che lo portò sino a sedere nelle supreme magistrature dello Stato: segretario di Stato prima, Consigliere di Stato poi e infine Consigliere federale.

Ma fu anche deputato alla Dieta, capace di dirimere complessi problemi doganali, postali, commerciali, così come seppe assumere compiti diplomatici per affrontare alcune delicate missioni, ad esempio nell’esacerbato Vallese del dopo Sonderbund o tra le truppe mercenarie svizzere al soldo del re di Napoli, accusate di massacri nei confronti di rivoltosi durante i moti popolari del 48.

Franscini aveva una forma mentis anche scientifica che gli permise di approfondire aspetti, ad esempio sulla flora e la fauna nella zona di Piora, che ancora oggi formano oggetto di studi e ricerche che lui in qualche modo già aveva approfondito duecento anni fa.

Attitudini ad approcci scientifici che gli permisero, non solo di essere ricordato come il padre della statistica svizzera, ma che gli fecero intuire l’importanza delle professioni tecniche e scientifiche con la creazione, per merito suo, e non tanto dell’Escher, del Politecnico federale di Zurigo.
Ma evidentemente anche qui a Faido il prestigio del Franscini è legato in maniera indissolubile alla scuola, la scuola pubblica (quando giocavamo attorno al monumento in piazza lo si indicava, non sempre con ammirazione, come quello che “ha inventato la scuola”).

Nessuno seppe sintetizzare meglio dello storico Giuseppe Martinola quello che Stefano Franscini concretamente fece per la scuola ticinese:
Ci volevano scuole: le creò.
Ci volevano libri: li scrisse.
Ci volevano maestri: li preparò.
Ci volevano leggi: le dettò.
Ci volevano denari:li trovò.

Egli partì con le sue riforme scolastiche praticamente da zero: anche se è vero che nel 1804 il Cantone si era dotato di una legge che stabiliva come in “ogni Comune vi sarà una scuola ove si insegnerà almeno a leggere e scrivere ed i principi di aritmetica”.
Legge che di fatto rimase lettera morta, ritenuto che non vi erano docenti preparati all’insegnamento, non vi erano locali adatti al di fuori delle sacrestie delle parrocchie, non c’era il tempo e l’attitudine giusta per istruirsi in un paese poverissimo ove i giovani erano anzitutto forze lavoro irrinunciabili nelle attività domestiche ed agricole. Non vi era nemmeno una parità di istruzione tra bambini e bambine: con riguardo all'istruzione femminile tuonò: "va male per i maschi; ma va peggio per le femmine".

Il Franscini cambiò le cose con l’entrata in governo cantonale nel 1830, dopo la riforma costituzionale del 29 affrontata come segretario di Stato.

Vi propongo alcune riflessioni sull'azione realizzativa di Franscini. Un Franscini che entra nel Governo cantonale nel 1830, dopo la riforma costituzionale del ‘29, come segretario di Stato, alternando questa carica a quella di Consigliere di Stato fino al 1848.

La scuola elementare venne fortemente potenziata per meglio diffondere l’istruzione indispensabile a tutti, anche ai più poveri.

Quando Franscini, nel 1848, divenuto Consigliere federale, si apprestava a partire per Berna, in Ticino non si contavano ormai più comuni senza scuola. Le scuole elementari risultavano frequentate complessivamente dal 77% delle alunne e dall’87% degli scolari obbligati.

Tra i traguardi raggiunti, uno dei più rilevantI, a detta dello stesso Franscini, fu l’istituzione
dei corsi teorici-pratici di metodica, che consentirono, grazie ad una frequenza sempre crescente di insegnanti e aspiranti tali, un significativo innalzamento qualitativo dell’insegnamento.

Il corpo insegnanti d’altronde, dai 150 maestri - per tre quarti ecclesiastici - salì a 430 unità (di cui 147 laici e 159 maestre), di cui la metà circa aveva seguito la scuola di metodica, e abbandonato l’inefficace pratica individuale, per praticare il metodo simultaneo, propugnato da Franscini.

Nel 1841 istituì la scuola maggiore, destinata ad una formazione più elevata per artigiani, commercianti, possidenti, agricoltori – coloro insomma che costituivano la gran parte del ceto medio di allora -, che offriva lungo un ciclo triennale, l’insegnamento di principi di letteratura italiana, geografia, storia, elementi di storia naturale, economia agraria, contabilità, lingue vive, calligrafia, canto, ed esercizi militari, in funzione dell’educazione fisica e civile.

Altre riforme seguirono, l’azione realizzativa del Franscini fu ampia, costante ed incisiva: ma fondamentale fu il salto culturale che seppe generare nelle teste dei ticinesi che capirono che le ambizioni di crescita civile e di benessere dei cittadini di una comunità passavano attraverso l’istruzione e l’educazione dei giovani. La scuola doveva diventare il luogo deputato all’educazione, educazione ai nuovi valori democratici, liberali e laici figli dell’illuminismo.

L’educazione, ebbe modo di scrivere il Franscini, “è in uno Stato e della massima importanza e di prima necessità. Da lei dipende la formazione dei futuri cittadini”.

Il merito suo, che è di grandissima attualità per la crescita del Ticino della conoscenza che ruota oggi attorno a USI, SUPSI, ASP e istituti di ricerca, è quello di aver compreso come la scuola avesse un ruolo strategico nella realizzazione di quel progetto di modernizzazione e democratizzazione della società che egli chiamava “incivilimento”.

Lungi da me l’intenzione di elencare i meriti del Franscini, e ancor meno di ripercorrere le tappe della sua azione politica fra il Ticino e Berna. Consentitemi però di ricordare un aspetto qualche volta trascurato: quello del Franscini ribelle, dell’innovatore, del precursore di una visione della politica intesa come azione volta a promuovere e cementare lo sviluppo materiale del paese con il progresso delle menti. Quanto il Franscini proclama la necessità dell’”incivilimento del paese” pensa proprio a questa sintesi fra sviluppo materiale e maturità delle coscienze. Mi pare che, almeno in parte, il mistero del Franscini celebrato oggi, ma qualche volta sottovalutato, frainteso e addirittura ripudiato con fastidio dagli uomini del suo tempo, stia proprio in questi suoi atteggiamenti innovativi in politica: infastidiva il suo “J’accuse” senza appello rivolto ai colleghi parlamentari, agli appaltatori scellerati, ai politici avidi, che al bene generale anteponevano l’utile privato o tutt’al più l’egoismo regionale e corporativo, infastidiva la sua avversione alle fazioni e alle contrapposizioni rigide, infastidiva la sua condanna di ogni forma di esclusivismo e della faziosità esasperata.

Come leventinese, forse anche come uomo di montagna, sono sempre stato impressionato dalla semplicità, dalla modestia del Franscini che non ha mai tradito le sue origini, capace di accettare e persino di valorizzare con la forza e la dignità dei grandi le sue tribolazioni economiche.

Ed è quanto enuncia una scritta che campeggia sulla lapide della tomba di famiglia nel cimitero di Bodio:
“Nacque povero, visse povero, morì povero”, che riassume un tratto distintivo dell’esistenza del Franscini: le umili origini, malgrado le quali riuscì col suo ingegno e la sua tenacia a raggiungere le più alte cariche dello Stato, e soprattutto la povertà, che lo accompagnò anche quando era Consigliere federale, e che è rimasta impressa nelle coscienze di generazioni di Ticinesi, che quella dignitosa povertà hanno condiviso. Una povertà che secondo la mia lettura personale, già più volte espressa, rappresenta più che un destino, una scelta etica: la scelta di chi assume il compito, nei confronti dello Stato, di servirlo, anziché di servirsene.

Integrità morale, spirito di abnegazione e di servizio, impegno per il bene comune, al di là dei vieti campanilismi e dalle faziosità politiche settarie; dopo la secolare inerzia della dominazione landfogtesca e i decenni dell’assolutismo dei landamani, la repubblica richiedeva una rigenerazione politica, che per essere tale doveva essere una rigenerazione della coscienza morale.

Franscini la incarnò, eccome la incarnò questa rigenerazione etica e politica, guidando il Paese verso una difficile opera di modernizzazione, democratizzazione e liberalizzazione, durante una lunga e intensa carriera politica, che hanno evidenziato doti politiche e umane che gli permettono di essere ricordato anche dopo 150 anni dalla sua morte come il più grande uomo di Stato della storia del Cantone Ticino.

Io, che sono certamente un po’ di parte, lo considero il più grande dei ticinesi di tutti i tempi.