14 novembre 2007

Inaugurazione mostra “Inchiostri fransciniani”

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - per l'inaugurazione mostra “Inchiostri fransciniani” del 29 ottobre 2007 a Bellinzona)

Gentili signore e signori,

150 anni fa, nel 1857, Stefano Franscini moriva improvvisamente nella sua casa di Berna, all’età di 61 anni.
Era infatti nato a Bodio, nel 1796, suddito urano; il Cantone Ticino non era infatti ancora sorto.
Bisognerà aspettare il vento impetuoso che spirava dalla Francia e le decisioni del Bonaparte, per spazzar via nel 1798 il secolare dominio landfogtesco che aveva dominato le nostre terre dal Cinquecento, con la nascita della Repubblica elvetica, una e indivisibile.
Ma soprattutto si dovette attendere il 1803, quando il Primo Console sancì con l’Atto di Mediazione la nascita del Ticino come nuovo Cantone sovrano in seno alla Confederazione.
Quando Franscini dunque spirava sulle rive dell’Aar, il Cantone non esisteva che da 54 anni.
Ma un Cantone che – come ha scritto lo storico Andrea Ghiringhelli – “nasceva come una fragilissima collezione di territori giustapposti e di popolazioni litigiose che non si riconoscevano né in una patria comune né in una comunanza di interessi. Ciò delegittimava le istituzioni e le leggi dello Stato cantonale ritenute delle intrusioni indebite nelle realtà locali.”
Ai nostri governanti apparve chiaro che tale delegittimazione nasceva dalla mancanza del cittadino ticinese.
Si cercò perciò – cito sempre Ghiringhelli - “di plasmare una coscienza cantonale attraverso un profluvio di stemmi, stendardi, bandiere e divise. Furono perfino commissionate opere che dovevano suscitare salutari slanci patriottici, come l'enorme tela di Antonio Baroffio collocata nel 1805 nelle sale del Gran consiglio o il Dizionario degli uomini illustri del Cantone Ticino di Gian Alfonso Oldelli. E non si lesinò sulle feste civico-patriottiche.”
Il problema si presentò analogo a livello nazionale, dopo la Costituzione del 1848 e la nascita della Svizzera moderna, e, mutatis mutandis, negli altri stati ottocenteschi, come ad esempio l’Italia.
Fu Massimo D’Azeglio ad avvertire che fatta l’Italia, andavan fatti gli Italiani.

Per cementare l’unità e fortificare l’identità nazionale uno strumento parve particolarmente efficace: l’individuazione di un eroe nazionale, di un pater patriae, di un esempio in cui riconoscersi.
La Svizzera, guazzabuglio di etnie e tradizioni diverse, non riuscì a trovarne di storici e ne cavò uno rimescolando nel cilindro delle leggende medievali: Guglielmo Tell, il balestriere di Uri, paladino della libertà e dell’indipendenza fino al sacrificio, che ebbe una fortuna larghissima, complice il genio di Schiller e di Rossini.
L’Italia, invece, puntò sulla “diarchia di bronzo” – come la chiamò lo storico Mario Isnenghi - di Vittorio Emanuele II, il “re galantuomo” e di Garibaldi., l’”eroe dei due mondi”, eroi con la spada in pugno, incarnazione del condottiero del risorgimento e dell’unità d’Italia.

Stefano Franscini, con le dovute proporzioni, si affermò ben presto come figura in grado di incarnare il pater patriae della nostra piccola repubblica.
Lo attesta a suo modo la colletta che venne organizzata quando egli era ancora in vita per realizzare un suo ritratto da diffondere nelle scuole del Cantone. Il gesto lusingò Franscini, che però per natura schivo e altruistico chiese che i soldi raccolti fossero devoluti ai bisognosi.
Il ritratto però si fece, dopo la sua morte, per la mano di Vincenzo Vela, e campeggiò nelle aule scolastiche di tutto il Ticino sino a non tanti anni fa, imprimendo nella memoria collettiva di tutti i Ticinesi quel volto e decretando la popolarità dello statista di Bodio. La scuola, creazione di Franscini, ne diventava così anche il sacrario laico.

(Additare il busto in gesso del Franscini al centro della mostra) Questo stupendo busto d’altronde è una, e forse la più bella più bella, delle tante rappresentazioni che poi arricchirono molti istituti scolastici del Cantone: è il gesso originale del busto marmoreo del Vela che si trova presso il Liceo Carlo Cattaneo di Lugano.
Il Ticino aveva così trovato un padre capace di coagulare attorno a sé comuni sentimenti di devozione patriottica, ma disarmato, dai tratti antieroici.
La litografia del Vela consegnava ai Ticinesi non un monarca-soldato, né un guerriero romantico e leggendario, ma un padre pacato, severo e amorevole, tra libri e carte, armato solo di una totale dedizione allo Stato, della sua povertà proverbiale e della penna.
Quella penna d’oca che nelle sue mani fu feconda e autorevole, e quando volle, tagliente, come uno stiletto.
Se ne avvide Gian Battista Quadri quando apparve, nel 1830 - anonimo, per sfuggire alla censura - un opuscoletto che chiedeva una nuova carta costituzionale. A poco valse la replica del Landamano: il governo si sbriciolò e si inaugurò una nuova era, salutata come quella della rigenerazione, che si cibava di ideali quali libertà, progresso, modernizzazione e democratizzazione.

La creazione del sistema scolastico ticinese fu la realizzazione più grande che Franscini ci ha lasciato, perché fu ed è lo strumento strategico per attuare quegli obiettivi .
Franscini voleva trasformare la plebe in popolo, i sudditi in cittadini e puntare all’incivilimento delle nostre terre, facendo del Ticino e della Svizzera un paese unito e moderno.
La sua penna, le sue carte, i suoi scritti - di politica, di statistica, di storia, di pedagogia, di dialettologia, di divulgazione del sapere pratico; articoli giornalistici, opuscoli, libri, leggi, rapporti, lettere -, i suoi scritti, dicevamo, per tutta la sua esistenza spalleggiarono la sua azione politica, la sostennero, la suffragarono, la inverarono.
Mai come in Franscini, per un’alchimia che era l’arte del suo fare politica, le parole diventano cose.
Quando morì, consigliere federale in carica, non lasciò che le sue carte.
E’ pertanto con rinnovato interesse, con emozione e devozione, che possiamo accostarci - grazie a questa mostra dell’Archivio di Stato, depositario istituzionale della nostra memoria - a quegli inchiostri fransciniani che rappresentano il sillabario della nostra storia moderna.
Grazie.