19 gennaio 2007

Gender Day 2007: il ruolo della donna nelle università

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - in occasione della giornata "Gender Day 2007: il ruolo della donna nelle università", organizzata venerdì 19 gennaio 2007 a Lugano)

[fa stato il testo parlato]


Gentili signore e signori,

Vedo che la tradizione grammaticale sessista, secondo cui il termine maschile vale anche per il femminile, resiste ancora qua e là. Sulla prima pagina della locandina si legge “Relatori”: ne è rimasto uno, il professor Baranzini, attorniato da cinque relatrici. Ma forse è solo una questione di disposizione grafica. Poche righe sotto, infatti, si rimettono le cose a posto, cosí come vuole la norma sulle pari opportunità nello scrivere e nel parlare. Dunque:

Care relatrici, caro relatore,
Gentili signore e signori,

“Va male per i maschi; ma va peggio per le femmine. Nelle scuole comunali ricevono d’ordinario l’istruzione coi maschi, ma in grado inferiore. La fanciulla di benestante famiglia imparava a leggere, ma anche a scrivere: se poi aggiungeva il fare le somme, la divisione e la moltiplica, era quasi troppo.”

Sono passati circa 170 anni, da quando Stefano Franscini scrisse queste frasi. Si potrebbe scrivere oggi: Vale, oggi e per fortuna, per i maschi e per le femmine l’accesso all’istruzione. Resta però la difficoltà di chi è donna di far valere le proprie capacità in carriera senza essere talvolta vittima delle dinamiche di mercato, di certe visioni che resistono all’interno della società e della politica. Leggo in una pubblicazione per le donne: ”Per invertire questa tendenza è necessario che il mondo cominci a camminare con due gambe, una maschile e una femminile, e con le loro diversità, naturalmente, ma con pari diritti.”

A parte la difficoltà fisica di camminare con due gambe cosí, ha dunque ragione Rita Levi Montalcini quando ribadisce, ancora 150 anni dopo il Franscini: “Il giorno che si darà alle donne la piena parità, il mondo vedrà una nuova speranza.” Una di voi scrive: “Donne forti e determinate – tra di esse madri e mogli – che hanno deciso consapevolmente di ritagliarsi uno spazio in un mondo universitario ancora molto solidamente declinato al maschile.” E aggiunge un’altra di voi: “Le donne devono imparare a usare quegli strumenti maschili che funzionano.” Come uomo, in un tempo in cui per fortuna l’ascia di guerra è sotterrata – almeno dalle nostre parti – quelle parole non mi turbano. Accetto con tutta la buona volontà l’invito a capire le esigenze delle donne e, come politico, a collaborare perché si creino strutture in grado di permettere alle donne, in prima fila alle madri, di non rinunciare a tutti i loro sogni.

Le statistiche lo dicono: la presenza femminile nel mondo accademico rappresenta solo una bassa percentuale del totale del corpo docenti e di chi lavora nella ricerca. Dite che le donne professore in Svizzera sono solo il 14%. Tre anni fa, secondo il documento She Figures, nell’Unione Europea dei 14 stati membri, la percentuale oscillava tra l’11,6% e il 13,2%, Nei Paesi Bassi e in Austria era solo del 6%. Secondo dati recenti, in Italia solo il 10% sono ordinari donne. Non ho elementi per dire se al giorno d’oggi riusciamo ancora a rimanere sopra la media europea, anche se, ormai l’abbiamo ripetuto più volte, la situazione non ci soddisfa.

Dalle interviste raccolte nella vostra pubblicazione Gender Day 2007 le donne sottolineano alcuni di questi aspetti tipici del mondo femminile, che dovrebbero tuttavia interessare e preoccupare anche gli uomini, che pure loro hanno un ruolo in seno alla famiglia. E’ ormai immagine radicata nella nostra società che noi uomini non siamo mai a casa e che tutto il peso dell’economia domestica cade sulla donna. La realtà della famiglia di oggi è tuttavia già diversa ed è molto opportuno che i servizi di pari opportunità considerino i problemi della famiglia nella loro globalità, non solo come problemi della donna.

Quelle difficoltà sono le esitazioni della donna a proseguire negli studi dopo la laurea perché si diventa mamma e nasce il problema dei figli, difficoltà legata anche all’importanza di poter disporre dell’aiuto dei nonni. E’ l’esigenza dell’attuale ambito accademico di dover fare esperienze professionali e di rimanere assenti per molto tempo dalla famiglia. E’ di avere – cito una vostra marginale – marito e professori come buoni compagni di viaggio e infine di contare sul sostegno e la disponibilità del compagno di vita perché la donna possa acquisire visibilità nel mondo del lavoro.

Come politico mi chiedo che cosa deve fare lo Stato per far sì che la società – cito da un testo del Laboratorio sul lavoro e l’impresa – non imponga più alla donna “ruoli familiari che interferiscono pesantemente con le modalità della produzione scientifica” e per far sí che – continuo la citazione - in tutti i settori produttivi persista l’evidenza secondo cui “il matrimonio e la carriera siano correlati negativamente.”

In altre parole vuol dire che le donne sposate e che hanno figli producono meno perché hanno meno tempo da dedicare al lavoro. E’ una donna che lo dice. E magari anche molti uomini la pensano così, dimenticando che proprio le competenze sociali acquisite nei ruoli familiari, le cosi dette "soft skill" sono considerate fondamentali per il successo del lavoro di gruppo e l’efficacia della ricerca.

Per concludere e rimanere nell’ambito che mi è più vicino come direttore del DECS. L’esigenza di organizzare strutture di accoglienza istituzionalizzate e aperte dalla mattina alla sera è fuori discussione. Molto si è fatto qui da noi. Ma c’è ancora molto da fare.

Bisognerà aprire nuove mense scolastiche e prevedere strutture per il doposcuola: è un problema che tocca il cantone e i comuni. Non riguarda solo gli spazi da mettere a disposizione. Da includere nella riflessione ci sono il lato finanziario non disgiunto dal problema dell’autonomia comunale e l’assunzione di persone che coprano quegli spazi di tempo. Sono coinvolti docenti, personale ausiliario, le famiglie. E in questa sede dev’essere riconosciuto il notevole e indispensabile apporto offerto dai privati.

Ma il problema non ha solo aspetti materiali. Si tratta, all’interno della nostra società, di educare la gente a un cambiamento culturale assai significativo. Concerne il ruolo della famiglia e in particolare della donna madre, ma anche il ruolo del padre, considerato molto spesso assente dalla vita quotidiana. Ma il cambiamento esige anche una riflessione sul ruolo e i modi dell’educazione dei figli. Esige il superare il modello semplicistico del “entwer, oder”, come continua contrapposizione duale. Occorre dunque promuovere un cambiamento culturale come che conduca a superare le contrapposizioni apparentemnete vere, perché semplici e ancorate nella tradizioni. Non "o madre o ricercatrice", ma "come diventare una migliore ricercatrice, perché madre, o padre". Le competenze e le abilità di negoziazione acquisite nel gestire le complesse relazioni di una famiglia sono valori da apprezzare per il lavoro.
In modo paradossale e ironico un responsabile del personale mi diceva che nelle sale di valutazione per le assunzioni il fatto di aver "gestito" con successo tre figli - o figlie – adolescenti doveva contare come un master in mediazione di conflitti…

Sono convinto della fondatezza delle norme di principio, di cui scrivete nella vostra pubblicazione, perché siano garantite le pari opportunità tra donna e uomo. E’ lodevole lo sforzo che questa università compie per giungere a un traguardo che dovrà comunque essere il traguardo di tutti, non importa in che campo del mondo produttivo operi.

Ma il cambiamento culturale, di cui ho detto prima, potrà essere realizzato solo con la convinzione di tutti gli elementi che compongono la società. E i cambiamenti culturali richiedono tempo.

Da una parte c’è chi cerca lavoro perché è il compimento naturale di un periodo di formazione che ha riempito anni della propria vita. Ma cerca lavoro anche per non sentirsi discriminato e per essere utile agli altri e per contribuire con il lavoro e la ricerca a migliorare la qualità della vita.

Dall’altra parte c’è chi offre lavoro permettendo di conciliare le esigenze familiari con quelle della professione, perché essere soddisfatto della propria vita vuol dire essere soddisfatti di quello che si fa.

Concludo con queste parole di ottimismo, senza il quale nemmeno il politico può lavorare a favore della comunità e auguro alle persone coinvolte in questa giornata di compiere oggi un passo in avanti perché la felicità consiste anche nell’avere la possibilità di poter fare quello per cui ci si è preparati. E molti ne sono oggi impediti.