14 novembre 2007

Commemorazione del quarto centenario della morte di Domenico Fontana

(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - per la Commemorazione del quarto centenario della morte di Domenico Fontana del 15 settembre 2007 a Melide)

Egregio signor Sindaco,
Egregio direttore dell’ufficio federale della cultura,
Egregio signor Console generale d’Italia,
Gentili signore, egregi signori,

celebriamo oggi i 400 anni della morte del grande architetto Domenico Fontana di Melide.
Un uomo che a quattro secoli di distanza ancora desta la nostra ammirazione per le sue doti artistiche, ingegneristiche e imprenditoriali, per la sua capacità di assumersi compiti impegnativi e per la capacità di portarli a termine con maestria e determinazione.
Innumerevoli e importanti sono le realizzazioni di Domenico Fontana a Roma come a Napoli, ma come a volte succede il suo nome rimane indissolubilmente legato ad un episodio per certi versi del tutto eccezionale.
L’episodio, come voi tutti sapete, è il trasporto e l’innalzamento dell’obelisco di Piazza San Pietro a Roma, dovuto alla determinazione di Papa Sisto V, che, eletto al soglio di Pietro nel 1585, aveva fatto di Domenico Fontana Architetto Generale pontificio.
La titanica impresa fece accorrere curiosi da ogni dove. Un editto venne promulgato per evitare disordini, precisando che “a chi avesse forzato li cancelli v’era pena di vita; di più che nessuno parlasse, o sputasse, o facesse strepito di sorta alcuna, sotto gravi pene; acciocché non fossero impedite le ordinazioni dell’architetto”. Sisto V si giocava la reputazione e il Fontana la testa, benché il severo Pontefice avesse segretamente ordinato di tener pronti dei cavalli per permettere a Domenico di fuggire qualora qualcosa fosse andato storto.
907 uomini e 65 cavalli assieme a capomastri, falegnami, tecnici, sotto la direzione dell’Architetto di Melide – nel silenzio assoluto, misero in moto la macchina.
L’operazione richiese parecchi giorni, ma andò a buon fine: l’obelisco venne innalzato, Fontana venne portato in trionfo e a Roma non si sentiva che risuonare il suo nome.
Il Papa, entusiasta, creò Domenico Fontana Cavaliere dello Speron d’oro, lo fece patrizio romano, assegnandoli una cospicua somma e una lauta pensione, e ordinando di iscrivere il nome dell’architetto di Melide alla base dell’obelisco, ad imperitura memoria.

Ma se oggi ci ritroviamo assieme per celebrare il nome di Domenico Fontana, in questo rito collettivo, non è solo per la singolare impresa della Guglia, com’era chiamato l’obelisco, né forse neppure per quella lunga serie di opere che l’architetto di Melide dapprima a Roma e poi - morto Papa Sisto V, suo gran protettore, nel 1590 - a Napoli, invitato dal viceré di Spagna Conte di Miranda, a cui certamente l’arrivo dell’architetto più famoso di Roma portava lustro.
Perché a Domenico Fontana è toccato, assieme ad altri grandi architetti ticinesi, come Carlo Maderno, Francesco Borromini, Carlo Fontana ecc, di rappresentare il meglio del Cantone Ticino; l’espressione più alta – si sarebbe detto un tempo - del nostro genium loci.

Ne abbiamo un’eloquente testimonianza nel grande dipinto di Angelo Baroffio per la nascita del nostro Cantone nel 1803, che possiamo ammirare a Palazzo delle Orsoline, nel corridoio del primo piano.
Questa tela raffigura in modo allegorico l’unione tra il Ticino, impersonato da un vecchio barbuto, con Helvetia, nelle vesti di una graziosa giovine: entrambi alzano gli occhi al cielo, dove la Giustizia da sopra le nubi sovrasta tutta la scena. Sulla destra, in secondo piano, è riconoscibile Ercole che atterra con la sua clava tre figure femminili, l’Avarizia, la Schiavitù e la Discordia; sulla sinistra invece, le Belle Arti porgono le loro preci alla Giustizia per la felicità del nuovo Cantone. Più a sinistra ancora - ed è quello che qui più ci interessa -, un piccolo putto indica una lapide con scolpiti appunto i nomi dei più grandi ticinesi, ossia i nostri grandi architetti. Manco a dirlo, il primo nome della lista è quello di Domenico Fontana.
La tela del Baroffio non è certo un capolavoro; il suo impianto storico-allegorico può apparire un po’ scontato, ma certo questo dettaglio della lapide con l’elenco degli artisti ticinesi è a suo modo una testimonianza eloquente e ben conosciuta dagli storici e dagli storici dell’arte, dell’appropriazione del mito comacino.
Il Ticino, nato come Cantone grazie all’Atto di Mediazione napoleonico, presenta – diciamo così – le sue credenziali al resto della Confederazione, offrendo un’immagine di grande profilo, che punta tutto sul fenomeno dei grandi architetti.
Non uomini d’arme, non poeti o filosofi o musicisti sono gli uomini illustri che il Ticino accampa nel suo pantheon, ma quei geniali interpreti di un’arte che aveva nobilitato Roma come Venezia, Vienna come San Pietroburgo, e dietro cui stava il vasto, ricco, diversificato e duraturo fenomeno dei maestri comacini.
Il mito ha avuto straordinaria fortuna e lo possiamo ritrovare ancora in campagne pubblicitarie del turismo ticinese di non tanti anni fa: con il noto slogan di Ticino terra d’artisti, che spazzava via l’immagine di un allegro Ticino rurale di boccalini e zoccolette che aveva imperversato per anni, ricuperando questa nostra antica e aulica tradizione.
Questione di marketing turistico si dirà, che poco ci tocca, ma anche questione di identità, che ci tocca invece moltissimo.
Perché non possiamo scordare che l’immagine che di noi offriamo agli altri, altri non è se non uno specchio di quel che crediamo di essere.
E allora studiarne la storia e le dinamiche diventa fondamentale per capire noi stessi, quel che siamo stati o che volevamo apparire, quel che siamo e che vorremo essere.
E’ significativo in questo senso che già il primo governo ticinese, desideroso di promuovere una propria identità culturale, diede l’incarico a padre Oldelli di redigere un Dizionario storico ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino, che vide la luce nel 1807, in cui, inutile dirlo, dava gran spazio agli architetti ticinesi.
E ancora oggi, possiamo affermare, è soprattutto grazie al prestigio internazionale dei suoi architetti, che il Ticino è conosciuto e apprezzato.
Non è un caso, d’altronde, se in Ticino, a Mendrisio, ha potuto nascere e crescere un’Accademia d’architettura.
Accademia, che accanto a molte altre istituzioni di questo ricco programma celebrativo dei 400 anni della morte di Domenica Fontana, per cui mi congratulo vivamente, ha contribuito con un convegno internazionale di studi, in collaborazione con l’Università di Napoli “Federico II”.
Un’occasione che non poteva andare persa, come pure per le altre celebrazioni che annoveriamo quest’anno: penso ai 150 anni dalla morte di Stefano Franscini, ai 125 anni della linea ferroviaria del Gottardo o ancora, per rimanere ad un grande personaggio italiano, al duecentesimo della nascita di Giuseppe Garibaldi.
Durante questi anniversari, al di là del pur significativo momento celebrativo, in quanto momento di celebrazione civile collettiva, che appunto rafforza i legami identitari e anche ai piacevoli aspetti conviviali, è bene che si colga appunto l’occasione per indirizzare degli sforzi nella direzione dell’ampliamento delle indagini scientifiche, nello sviluppo della ricerca, nell’incremento degli studi.
Queste ricorrenze, sono momenti privilegiati per attrarre l’attenzione del pubblico, per incrementare la ricerca di finanziamenti, per elaborare collaborazioni e sinergie tra enti pubblici e privati.
Bisogna evitare però di scadere nella semplice retorica, come pure di rincorrere progetti apparentemente attrattivi ma pretestuosi, e puntare sempre sulla qualità.
La cultura, ricordiamolo, rimane un elemento essenziale dell’identità di un essere umano e di una collettività. Per gli individui, cosiccome per le comunità sociali è fondamentale il conservare e tutelare la propria cultura. Perdere la propria cultura significa, per una persona o per una comunità, perdere la propria identità essenziale. Questo spaesamento, come direbbero filosofi e sociologi, consiste come nello stare in un luogo senza più significato, in un paese insignificante, senza una chiara identità sia a livello personale che a livello comunitario, sociale.
Ciò ha effetti molto negativi, che noi vogliamo evitare, tanto più in un momento storico come questo in cui convive la pluralità di culture, con cui è necessario essere in grado di intrecciare un fervido dialogo, e l’omologazione culturale, che è bene rifuggire.
Il patrimonio culturale è riconosciuto come un veicolo di identità culturale. E’ per questo che affermiamo la necessità di tutelare il nostro patrimonio, di conservarlo, di valorizzarlo, di studiarlo, di fare opera di divulgazione.
La cultura non è un optional, un di più o un lusso per pochi eruditi, essa appartiene a tutti noi, parla di cose che sono di tutti noi: del nostro passato, della nostra memoria, di ciò che ci ha permesso di essere come siamo; delle nostre paure e delle nostre angosce, delle nostre aspettative. dei nostri sogni e delle nostre utopie, di ciò che è più profondo in noi, come esseri umani.
Grazie a Domenico Fontana possiamo così studiare non solo la vicenda di un illustre architetto, e la storia di un processo identitario che ha investito il nostro Cantone, ma anche – con i nostri conterranei come protagonisti - la straordinaria avventura voluta da Papa Sisto V, di voler cambiare l’assetto urbanistico di Roma, secondo un disegno controriformista.
Ringrazio le Autorità del Comune di Melide e tutti coloro che hanno collaborato all’organizzazione di questa manifestazione che ci permette di valorizzare una pagina importante della nostra cultura e di aggiornare la nostra memoria storica. Il che mi permette di ricordare una volta ancora che la vera, la grande redditività del patrimonio culturale non è nella sua commercializzazione, e nemmeno nel turismo e nell’indotto che esso genera, bensì in quel profondo senso di identificazione, di appartenenza, di cittadinanza, che stimola la creatività delle generazioni presenti e future con la presenza e la memoria del passato.