14 agosto 2007

Commemorazione del 150° della morte di Stefano Franscini


(Intervento di Gabriele Gendotti – Consigliere di Stato e Direttore del DECS - in occasione della Commemorazione del 150° della morte di Stefano Franscini del 19 luglio 2007 a Bodio)

Signor Presidente del Consiglio di Stato del Canton Sciaffusa, Dr. Erhard Meister,
Signor Sindaco del Comune di Bodio, Prof. Marco Costi,
Signori Municipali e Consiglieri comunali,
Signore e Signori,

lasciatemi dapprima ringraziare il Comune di Bodio per l’invito che è stato rivolto all’autorità cantonale per partecipare attivamente a questa commemorazione.
E’ per me un onore poter esprimere il messaggio del Consiglio di Stato in occasione di questo significativo momento celebrativo, e - come leventinese e responsabile del Dipartimento dell’educazione -, non senza commozione..

Il 18 luglio 1857, Franscini scriveva da Berna all’editore Pasquale Veladini:
Pregiatissimo signore,
finalmente posso spedirvi un plico contenente 39 pagine della guida. Non mi è possibile per causa di malattia sopraggiuntami domenica passata (attacco di dolori reumatismali) di rispondere a certi punti importanti della vostra lettera, né di mandarvi gli articoli riguardanti l’esposizione.
Nella speranza di essere presto ristabilito e di potere riprendere i miei lavori, vi saluto.
Franscini sperava dunque di presto ristabilirsi, e com’era nel suo costume, di poter riprendere i suoi lavori (qui si riferiva alle pagine iniziali di un suo nuovo libro, una Guida del viaggiatore nella Svizzera Italiana). La morte invece lo colse, inaspettatamente, il giorno dopo, sessantunenne, Consigliere federale in carica, ma ormai disilluso e amareggiato, desideroso da tempo di lasciare il Governo e disposto di tornare in Ticino - dopo che gli era stata negata la possibilità di insegnare al Politecnico federale di Zurigo – e di accettare anche un oscuro posto di archivista e direttore degli stampati ufficiali, per poter almeno sostentare la sua numerosa figliolanza.

Oggi, si celebra dunque, nel suo paese natale, il 150° della sua scomparsa.
Dobbiamo però chiederci il perché di queste celebrazioni.
Soprattutto del perché ci ritroviamo con regolarità di fronte a questa cappella mortuaria a commemorare la nascita e la morte di Franscini.
Perché non ha mai cessato questo pellegrinaggio laico?
Perché Bodio e il Cantone si mobilitano con manifestazioni, mostre, convegni, pubblicazioni, per ricordare le date che scandirono l’esistenza di quest’uomo?
O detto altrimenti, perché non avviene per altri pur illustri personaggi della nostra storia cantonale? Per l’abate Vincenzo Dalberti, che pure fu il primo presidente del Governo di questo Cantone; per il landamano Gian Battista Quadri, che resse le sorti della nostra giovane Repubblica per un quindicennio; per Gian Battista Pioda, amico fraterno del Franscini, che gli succedette in Consiglio federale; la lista potrebbe essere ben più lunga.
Credo che si possa affermare che il nome di Franscini, a 150 anni dalla morte, sia riuscito a sfuggire a quell’oblìo che è toccato agli altri protagonisti della nostra storia, sfidando il tempo. Il suo nome ancora oggi ci parla, ci dice qualcosa.

Ma chi commemoriamo quando commemoriamo Franscini?
Il maestro, l’educatore, aperto anche alle più innovative esperienze pedagogiche?
L’autore di testi per le scuole, alcuni dei quali ebbero una buona fortuna editoriale?
L’autore di articoli di storia patria, di economia, di statistica?
La ficcante penna di libelli che fecero tremare il governo assolutista del Quadri?
L’autore di opere fondamentali di statistica, come La Statistica della Svizzera o il suo capolavoro, La Svizzera italiana, apprezzati anche fuori dai confini cantonali e nazionali?
Oppure l’uomo politico: il Segretario di Stato, il Consigliere di Stato, il Consigliere federale, cariche che costellarono la sua stagione politica, lunga quasi un trentennio?
Il deputato alla Dieta, chiamato a dirimere complessi problemi doganali, postali, commerciali?
Oppure il diplomatico, capace di affrontare delicate missioni nell’esacerbato Vallese del dopo Sonderbund o tra le truppe mercenarie svizzere al soldo del Re di Napoli, accusate di massacri nei confronti di rivoltosi durante dei moti popolari?
Sembra impossibile riassumere in poche parole l’attività di Franscini, tanto fu vasta, incessante e incisiva.

Per noi, per la nostra giovane repubblica, Franscini ha assunto soprattutto il ruolo di padre.
Franscini è stato additato come il padre del Politecnico federale di Zurigo.
E’ stato riconosciuto come il padre della statistica svizzera.
Per noi ticinesi, è soprattutto il padre della popolare educazione.
Franscini è stato anche il primo Consigliere federale ticinese ed è stato definito come il più grande uomo di Stato che il Ticino abbia avuto.
Tutto ciò, dovrebbe bastare.
E pure mi sembra di poter dire che c’è di più.
Ed è quanto enuncia una scritta che campeggia sulla lapide che sta alle nostre spalle:
“Nacque povero, visse povero, morì povero”, che riassume un tratto distintivo dell’esistenza del Franscini: le umili origini, malgrado le quali riuscì col suo ingegno e la sua tenacia a raggiungere le più alte cariche dello Stato, e soprattutto la povertà, che lo accompagnò anche quando era Consigliere federale, e che è rimasta impressa nelle coscienze di generazioni di Ticinesi, che quella dignitosa povertà hanno condiviso. Una povertà che rappresenta più che un destino, ma una scelta etica: la scelta di chi assume il compito, nei confronti dello Stato, di servirlo, anziché di servirsene.

Franscini, il nostro pater patriae, è per certi aspetti quanto di più antieroico possiamo attenderci. Al momento della Riforma costituzionale del 1830, a cui contribuì largamente con un magistrale opuscolo che fece letteralmente crollare il governo assolutista del landamano Quadri, Franscini – scrive lo storico Giuseppe Martinola – “per la verità si era mostrato alquanto sprovveduto e impacciato nelle qualità che occorrevano, o sembravano indispensabili a un politico; non aveva il dono della parola facile, rifuggiva dai fragori della tribuna, non era popolare e alieno fu sempre alle complicate manovre politiche”.
Ma quell’“invidiabile povertà immacolata” - come la definisce ancora il Martinola - che accompagnava “quell’uomo dal corpo fragile e minuto”, fu un’arma potente, che forse più di ogni altra sua virtù, gli permise di traghettarlo dalla storia al mito.

Franscini è il nostro eroe repubblicano, che a Francesco Cherubini confessa “A me non cospicuo di ricchezze, non atto agli intrighi, non ligio alle fazioni, sarebbe poco acconcio un posto nel nostro Consiglio composto di uomini pel massimo numero de’ quali son ragione di riso o almeno di indifferenza quelle cose che a me sono potentissimo motivo di riverenza e amore”.

Ma che cosa chiedeva agli uomini politici Franscini? Ce lo dice nel Saggio di cronaca ticinese del 1833: “ …ordine, applicazione, integrità. Quanto più risplenderà il Governo per tali virtù, tanto più appoggio troverà ne’ rappresentanti, tanto più rispetto negli amministrati.”

Integrità morale, spirito di abnegazione e di servizio, impegno per il bene comune, al di là dei vieti campanilismi e dalle faziosità politiche settarie; dopo la secolare inerzia della dominazione landfogtesca e i decenni dell’assolutismo dei landamani, la repubblica richiedeva una rigenerazione politica, che per essere tale doveva essere una rigenerazione della coscienza morale.

Franscini la incarnò, guidando il paese verso una difficile opera di modernizzazione, democratizzazione e liberalizzazione, durante una lunga e intensa carriera politica, che evidenzierà doti politiche e umane che gli permetteranno di essere eletto nel 1848 in Consiglio federale.

Il riconoscimento della probità, della tenacia e dell’ingegno del piccolo contadinello di Bodio, povero ma meritevole, e la ricompensa finale con l’elezione a Consigliere federale sarebbe in fondo stato il giusto happy end di una vicenda umana esemplare che non a caso figurerà in un celebre volume di Michele Lessona, intitolato Volere è potere, pubblicato a Firenze nel 1869, su modello dell’opera inglese di Samuel Smiles, Self-Help, tradotto nel 1865 in italiano con l’eloquente titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, ovvero Storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi, in tutti i rami dell’umana attività.
Nel volume del Lessona, Franscini stava in buona compagnia con personaggi come Gioacchino Rossini, Giuseppe Verdi, Vincenzo Vela e tanti altri uomini di scienze, letterati, industriali.

Tuttavia la storia aveva previsto altro per il Franscini, per il quale nel 1854 scoccò l’ora di una clamorosa e umiliante sconfitta.
Erano infatti previste per quell’anno le votazioni per il rinnovo del Parlamento federale e la situazione politica in Ticino era assai tesa e confusa. Per contrastare la politica governativa che aveva portato fame, disoccupazione e disordini nel Paese, a causa dell’intransigente atteggiamento nei confronti dell’Austria e al conseguente blocco economico e all’espulsione di migliaia di Ticinesi dalla Lombardia, oppositori di destra e di sinistra, Conservatori e Democratici, si coalizzarono nel movimento fusionista che ottenne una clamorosa vittoria elettorale, sconfiggendo il Pioda, il Luvini e il Consigliere federale Franscini, che benché operasse a Berna, era considerato l’ispiratore di quella politica.
Ma al tossico calice servito al Franscini nel suo Ticino, si preparava intanto un inaspettato antidoto dall’altra parte della Confederazione, sulle rive del Reno. Nel canton Sciaffusa infatti, le elezioni al Nazionale non avevano dato nessun esito, complice anche la bassa partecipazione alle urne. Il Governo decise di multare chi non avesse votato al turno successivo: misura quanto mai convincente, se infatti la percentuale superò poi l’80%. Al secondo turno, solo il consigliere nazionale uscente Fueg risultò però eletto, ma assieme ai voti destinati ai candidati ufficiali vi fu una sorpresa: le urne contenevano anche tre schede col nome di Franscini. Chi vergò quel nome? Ticinesi che abitavano a Sciaffusa? Ammiratori del Consigliere Federale di Bodio? Non lo sappiamo. Di fatto furono la scintilla che innescò un’azione di sostegno del magistrato sconfessato nel suo stesso Cantone, supportata dal “Tagblatt”, che non esitò a scrivere “la nostra soluzione è Franscini”.
Al terzo turno ancora nessuno raggiunse la maggioranza richiesta, ma Franscini era già salito al quarto posto. La “Neue Zürcher Zeitung” commentava quel voto affermando: “ Ciò avvenne senza alcun accordo particolare negli ambienti politici, senza una pubblica proposta, bensì unicamente come conseguenza di un sentimento patriottico di singole persone desiderose di testimoniare la loro stima e attenzione a un uomo cui il suo cantone d’origine e la Confederazione devono molto, non ché di dimostrare ai loro miopi concittadini a sud delle Alpi che né la lingua né la confessione possono impedire di sostenere uomini meritevoli”.
Il 19 novembre 1854, al quarto turno avrebbero dovuto partecipare i primi tre candidati del turno precedente, ma per non escludere Franscini venne fatto ritirare, non senza aspre polemiche, lo sciaffusano Oschwalb. Franscini venne plebiscitato dagli elettori di Sciaffusa, staccando nettamente gli altri due candidati del cantone, divenendo così Consigliere Nazionale Sciaffusano.
La notizia giunse in Ticino dove l’indomani vennero fatte sparare 22 salve di cannone da Castelgrande.
Franscini, il 25 novembre, da Berna, scrisse di suo pugno al Governo di Sciaffusa una lettera in italiano, e - come ha notato Adriana Ramelli - senza una sola parola che potesse sminuire quel Ticino che l’aveva in qualche modo tradito, esprimeva la sua gratitudine al governo e al popolo di Sciaffusa “a testa alta, sereno, consapevole di quanto [avrebbe potuto] ancora dare al Paese”.
Il 6 dicembre infine, l’Assemblea federale rielesse Franscini in Consiglio federale e Sciaffusa poté così poi eleggere un proprio deputato.

In quei giorni Franscini probabilmente pensava a come esternare pubblicamente i suoi ringraziamenti ai suoi Sciaffusani e decise di farlo a modo suo, cioè nel modo di serio studioso qual era. Ce lo rivela una lapidaria nota in un angolo del primo foglio di abbozzi per una prefazione del volume storico a cui da tempo stava lavorando “Vite d’uomini illustri della Svizzera” che dice:“dicembre 1854. Risolto di dedicare quest’opera (se Domeneddio mi concede di finirla) al Popolo del Canton Sciaffusa”.

A 150 anni dalla morte di Franscini, il Governo del Canton Ticino, rinnova i suoi ringraziamenti al Cantone di Sciaffusa nella persona del presidente del suo Consiglio di Stato, per un gesto di cui rimane debitore e che è ben presto entrato a far parte degli annali della storia del nostro paese. Un gesto che non solo permise a Franscini di continuare a sedere in Consiglio federale e al Ticino di avere un suo rappresentante in Governo, ma che premiava soprattutto un uomo le cui capacità politiche e umane sembravano utili a tutto il paese, superando con lungimiranza steccati linguistici e confessionali.

Problemi nuovi e nuove scelte si impongono al mondo politico del XXI secolo rispetto a quelli che dovette affrontare Franscini. Egli fu e rimane figlio del suo tempo, che fu quello del liberalismo dell’Ottocento.
Il suo pensiero, le sue riflessioni, il suo metodo, i suoi scritti, la sua azione politica, la sua condotta umana continuano tuttavia ad essere fonte di ammaestramento.
Per questo, per quell’inestimabile apporto che diede al Paese, il Ticino ha il dovere di ricordarlo e di esprimergli coralmente la sua gratitudine.